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L’iniziativa “Incontri di viaggio“, promossa dal blog di eDreams e da Vanityfair.it/viaggi-traveller, è stata un successo. Ci avete scritto in tanti, di luoghi splendidi, magici, misteriosi, così intensi come solo un incontro speciale può essere. Di persone che con un piccolo gesto, con il proprio modo di essere o con un insegnamento inaspettato hanno cambiato, rafforzato o annullato il senso di un viaggio. In tutti i vostri racconti, abbiamo trovato la passione e la curiosità che spingono un viaggiatore ad intraprendere una nuova avventura, e scegliere i migliori reportage è stato molto difficile.

Alla fine però ne abbiamo selezionati 5, che ci hanno colpito per la loro sensibilità, tenerezza e intelligenza, e oggi ve li presentiamo. Potete leggerli qui e sul sito di Vanityfair.it/viaggi-traveller.

Complimenti a Laura Benvenuti, Marina Mucci, Elisabetta Bonotto, Lara Calligaris e Alessando Santini per l’ottimo lavoro e grazie a tutti per aver partecipato ad “Incontri di viaggio“.

incontri di viaggio edreams

Sorella unica a Bhaktapur, di Laura Benvenuti

A Bhaktapur c’è una piccola piazza ricoperta di vasi d’argilla.

Piazza dei vasi a Bhaktapur

Il vento che scende in picchiata dall’Himalaya s’incunea nei vicoli stretti del villaggio, sferza le pareti fangose delle case e dei palazzi, arriva con forza a spazzare la polvere delle strade e a disperdere nel mondo le preghiere scritte su mille fazzoletti colorati che sventolano nel cielo freddo di febbraio. L’aria che irrompe nella piazza di Bhaktapur va a disturbare il fuoco in cui viene cotta l’argilla. I vasi, ancora avvolti di fumo, brillano di scintille primordiali e vengono forgiati da tutti gli elementi. Non so quale donna pagherà cinquanta rupie per un orcio fatto di acqua, terra, fuoco e vento; è un prezzo troppo alto per questa umanità che si aggira per la piazza in sari sgargianti, con il capo riparato da una coperta sottile che scende ad avvolgere spalle e braccia e probabilmente a trattenere con un morbido nodo un infante che non si riesce a scorgere in mezzo a tutto quel tessuto. O forse è solo un fagotto di panni sporchi, in fondo il pozzo del lavatoio è proprio dietro l’angolo, in un vicolo di mattoni ocra. Tutto turbina veloce nel vento: la polvere, l’odore di fumo, le preghiere, i richiami del mercato.
Lama Pret avrà quindici o sedici anni. Spicca perché sicuramente non è una donna che cerca vasellame al mercato, né un bimbetto che corre sciolto lanciando gridolini incomprensibili. Si avvicina senza indugi, quasi sfrontato; del resto io sono un obiettivo facile in mezzo a questa moltitudine. Lui ha un viso acerbo in cui solo gli occhi, scurissimi e liquidi, dichiarano le sue radici asiatiche. Mi scambia per una turista inglese e inizia a raccontarmi la storia di questa piccola piazza di mercato, un luogo insignificante paragonato allo splendore antico di Durbar Square, appena qualche via più in là. Ma questo ragazzo non mi racconta le gesta dei principi guerrieri che hanno varcato il Cancello d’Oro o le storie delle divinità indù che ancora risiedono nei templi e nelle pagode magnificamente decorati. Non fa risaltare i leoni possenti a guardia del palazzo reale; le scimmie, i rinoceronti e i cammelli scolpiti e ingioiellati per la gioia di una dinastia perduta secoli fa. Il ragazzo è un tutt’uno con la sua piccola piazza ricoperta di vasi disposti in file ordinate; la sua superficie piana, realizzata con un mosaico di mattoni dai colori offuscati; le case che la delimitano, dalle quali si aprono grandi finestre e si affacciano balconi di legno scuro, intagliati come le colonne che sorreggono il minuscolo portico lungo un lato della piazza. I tetti sono sostenuti da travi intarsiati, gli infissi sono opere d’arte minuziose, in cui intricati disegni sono stati piallati dalla lima del tempo; non siamo a Durbar Square, ma anche qui tutto narra di una bellezza leggendaria.

Piazza Bhaktapur

Lama Pret me la spiega con le parole semplici di una lingua non sua e io osservo il suo maglione pesante, i pantaloni impolverati e i suoi piedi scuri che calzano solo ciabatte di plastica. Non porta calze, come la maggior parte dei nepalesi; i migliori camminatori di montagna, il popolo che quotidianamente calpesta l’Himalaya non ha bisogno né di calze, né di scarponi. Quello che serve a questo ragazzo è un dizionario di inglese per la scuola. Me lo chiede come compenso per le cose che mi raccontato, per i dettagli che mi ha fatto notare nella piazza, per il quarto d’ora in cui non mi ha mollato di un passo. Lì per lì non ci credo; penso che voglia solo una ricompensa in denaro, ma lui inizia a camminare e mi fa segno di seguirlo fino ad una saracinesca mezza divelta che è l’ingresso di un locale che potrebbe essere un’edicola o una libreria. La stanza è angusta e ogni giornale, libro o quaderno è ricoperto di polvere finissima. Capisco che davvero vuole che gli compri il dizionario e in più mi chiede un altro testo, ma questa volta lo fa con pudore, forse teme di aver osato troppo. Il secondo libro non è per lui, ma per suo fratello e l’uomo dietro al tavolo ricoperto di giornali impolverati mi rassicura. “For school…” è per la scuola.
Compero i due libri e li pago 1.700 rupie, l’equivalente di trenta quatto vasi sulla piazza del mercato, ovvero 12 euro. A casa non sarebbero bastati nemmeno per un diario e una penna.
Lama Pret sfodera un sorriso immenso e continua a ringraziarmi chiamandomi “bibi”, sorella.
Tre settimane fa sono partita dall’Italia, figlia unica in viaggio verso un luogo remoto chiamato Nepal. Oggi sono a Bhaktapur, in questa piazza fatta di argilla e vento. E sono diventata una sorella.

In volo sull’Indonesia, di Marina Mucci

Due settimane. E sono anche volate. Eppure ci pare di essere via da un tempo indefinito, mentre Labuan Bajo scorre un’ultima volta sotto i nostri occhi e già crudelmente ci manca, perché lo sappiamo, non si torna mai, il mondo è troppo grande, la vita troppo corta, anche se ho sempre bisogno di mentire a me stessa, “l’anno prossimo torniamo, promettimi che torniamo”.

indonesia

Nella tasca dell’aereo ad elica c’è il foglio delle preghiere in due lingue, voliamo bassi sullo sterminio di isole dannatamente belle e selvagge che ora riconosciamo una per una, avendole girate a nuoto palmo a palmo, con la nostra sacca stagna con dentro i soldi, i vestiti asciutti e, appese fuori, le scarpe, perché con quelle correnti non si sa mai. Penso al fido “capitan”Ahmet con la sua barca a nostra disposizione per pochi vergognosi euro, pronto ad accoglierci  a bordo con un the caldo, felice di stupirci con nuove incontaminate barriere e nuove esperienze, come quel tramonto a Kalong, quando di colpo le volpi volanti sono partite tutte assieme, oscurando per 20 minuti il cielo sempre più buio. E poi delfini quasi ogni giorno, draghi di Komodo, tartarughe emerse a respirare, aragoste, acqua invisibile, come stessimo volando sui coralli, sabbie bianchissime, e i colori eclatanti del reef più ricco del mondo. E anche bagni di folla, un’allegra umanità pulsante tra odori, colori, rumori, fumo di bancarelle, pesce che salta nelle ceste, grida, bambini, schizzi di fango, occhi, sorrisi, sudore, brulicare di vita. Proprio sotto di noi un banco di cetacei ci dà ancora un ultimo saluto, guizzando a pelo d’acqua. Generosa fino all’ultimo, grazie Flores, grazie.

Ma allo scalo di Denpasar qualcosa non va, il volo per Kuala Lumpur è in ritardo di 3 ore, accidenti, proprio QUEL volo, l’unico con tempi già troppo stretti. Ansia. Ripercorro mentalmente l’iter da affrontare nell’immenso aeroporto della capitale malese prima di poter saltare sul penultimo volo della vacanza, quello per Istanbul, dove abbiamo la coincidenza per Genova: prima l’ufficio immigrazione per il controllo passaporti, poi il recupero bagagli, chissà dove, ma non basta, dovremo anche cambiare terminal, e ci vorrà almeno un’altra mezzora, e poi rifare il controllo bagagli e il check-in, come diavolo faremo? Quando finalmente troviamo posto sul volo per Kuala Lumpur siamo sfiniti dallo stress. Al nostro fianco siede un giovane architetto malese. Cerca di incoraggiarci, sorride, ci mostra con un tablet il suo lavoro e le foto appena scattate a Bali in vacanza, e per un attimo ci vergogniamo delle nostre povere foto da turisti per caso.

Monte Bromo, Indonesia
Monte Bromo, Indonesia

Un occhio all’orologio ed uno al finestrino, rincorrendo il tramonto, sotto di noi coste ignote battute dall’oceano, profili di vulcani e città che non vedremo mai. Finalmente siamo sulla Malacca ma non è ancora finita, il pilota annuncia che non si può scendere, troppo traffico, siamo in coda, come in autostrada quando si va al mare. Tocchiamo terra, il nostro nuovo amico ha già trovato il numero e sta telefonando all’aeroporto, “quando chiude il check-in del volo Turkish per Istanbul?” Lo richiamano, “tra 40 minuti”. Lui è a casa e ha già tutto con sé, non deve cambiare terminal, peccato, lo salutiamo quasi senza girarci, correndo, poi stupiti lo ritroviamo sorridente all’attesa bagagli “vi aiuto ad uscire e a trovare un taxi”. Kuala Lumpur profuma come un giardino tropicale sotto i flash dei fulmini, l’aria è densa di pioggia imminente, prima che fossimo solo in grado di pensarlo il nostro angelo aggancia un taxi, contratta, dà istruzioni e carica i nostri bagagli, ma che fa adesso? sale anche lui, ma non doveva andare da tutt’altra parte? Non so se ho più paura di perdere l’aereo o di schiantarmi sul taxi che sfreccia tenendo la sinistra, non so nemmeno se ci bastano i soldi malesi per pagare quella corsa disperata, cerco gli ultimi ringtt  raspando con le unghie tra rupie indonesiane, euro e lire turche, scendiamo dal taxi stremati dall’ansia, e il nostro amico ha già estratto dal baule i bagagli e sta pagando lui il taxista, no questo no, è davvero troppo, poi in trance ci lasciamo guidare allo sportello del nostro check-in in chiusura, lacrime di sollievo, “è tutto ok, ce l’avete fatta”.

Appena il tempo di un grazie e un sorriso, ricordo il bianco dei denti nello scuro del viso mentre lui si allontana per sempre.

Come ti chiami, dove sei ora, giovane architetto di Kuala Lumpur, che eri sul volo da Bali questo 2 settembre? Come potremo mai ringraziarti?

Io e Magued, di Elisabetta Bonotto

Io e Magued ci siamo conosciuti su una spiaggia, sul Mar Rosso, in Egitto.

Io e Magued

Eravamo entrambi in vacanza lì. “Lì” è il lato paradisiaco dell’Egitto. Lì, se scegli un colore dall’arcobaleno, lo trovi qualche metro oltre il tuo sguardo: nel cielo, nell’acqua, nella sabbia del deserto. Bellezza, nel suo senso più autentico. Io e Magued siamo tornati a casa alla fine della nostra vacanza, non ricordo chi dei due sia andato via prima. Io sono tornata a Torino, Italia. Magued è tornato al Cairo, Egitto. Io ho iniziato a studiare per i miei esami all’università, lamentandomi di non poter prendere il sole in giardino quanto avrei voluto per fissare sulla pelle il colore dell’estate. Magued non può uscire da casa dalle 7 di sera alle 6 del mattino. Magued fa il rappresentante al Cairo, anzi, faceva. A settembre, mentre io darò gli esami all’università, Magued partirà per Dubai, lasciando la sua famiglia, perché al Cairo il rappresentante non riesce più a farlo. Magued mi scrive la sera quando è a casa. Mi ha detto del sangue nelle strade, mi ha detto di quello che pensa lui e di quello che pensano i suoi amici, mi ha mandato le foto della città più popolosa d’Egitto che diventa deserta quando scatta il coprifuoco e sembra quasi che quella foto sia presa da un libro di storia. Magued mi ha raccontato tutto questo, ma poi mi ha chiesto di parlare d’altro.
Fragilità, nel suo senso più estremo.

Magued mi ha raccontato qualcosa del mondo. E io ho detto a Magued di stare attento e di prendersi cura di sé.

Marisol: celebrando la vida, di Lara Calligaris

C’era una volta… Le favole di solito iniziano così, ma la protagonista numero uno di questa storia  era tutt’altro che una potenziale principessa. Si tratta, infatti, di una donna che stava scappando dal suo “acquario”, dalla sua comfort zone perché, nonostante avesse un buon lavoro, una buona sistemazione, persino dei buoni amici, sentiva che le mancava l’aria per respirare. Andava tutto abbastanza bene, forse era questo il problema e lei, in cuor suo, lo sapeva. Un buono non è un ottimo, e una come lei, una “sgaia”, come si dice dalle sue parti di una che ci vede lungo, non è facile da fregare. Un buono, dal suo punto di vista di giornalista (per passione), insegnante (per vocazione) e barista (per necessità), era il bicchiere mezzo vuoto; ottima era invece diventata, ultimamente, l’attitudine a svuotarlo quel bicchiere. L’ebbrezza alleggeriva il peso di quel vuoto che si portava dentro, che sapeva di voto mediocre, di assenza di favole in cui credere.

E c’era una volta anche Marisol, la protagonista numero due di questa non-favola: era stata abbandonata alla nascita dalla madre ed il padre era in carcere; in seguito, era stata accolta in un centro per bambini rimasti soli o con problemi di denutrizione. La nonna, l’unica parente che dichiarava di volersene assumere la responsabilità, durante la sua permanenza non le aveva fatto nemmeno una visita, pur abitando nel paese vicino. Come in ogni favola – o non-favola in questo caso – che si rispetti, ci sono un luogo e un tempo dell’azione. Il luogo è San Carlos, nel sud della Bolivia, uno sperduto paesino ai confini con la foresta Amazzonica dove la donna arriva come volontaria dal nord Italia, e dove la bambina l’attende, insieme con tanti altri bambini che come lei, difficilmente una favola vera se la sentiranno mai raccontare prima di chiudere gli occhi, in quel centro che da un anno era diventato la sua casa e la sua famiglia. Il tempo per la donna è quello delle vacanze scolastiche trascorse, fino all’anno prima, racimolando qualche soldo in più col lavoro di barista nelle discoteche mentre, a suon di bicchieri mezzi vuoti e musica assordante, le si prosciugava l’anima. Per la piccola Marisol, invece, esisteva un solo tempo, quello scandito dai bisogni primari: l’ora della pappa, del cambio del pannolino, del termometro, delle medicine, del bagnetto e del sonno durante il quale a cullarla, come ninna nanna c’era solo il pianto di altri bambini.

marisol

Non ci sono passaggi straordinari nelle non-favole. Non balli sontuosi, castelli, principi, o pozioni magiche. E’ solo l’istinto di sopravvivenza, seppur così diverso fra le due protagoniste di questo racconto, a farle avvicinare. Le streghe cattive, invece, ci sono eccome. In principio, per la donna queste assumono la forma dell’orrore per la miseria che attanaglia San Carlos e quei bambini, della paura della malaria, dei serpenti velenosi, di non farcela senza il proprio rassicurante “acquario” a farle da cornice, e che ora, paradossalmente, le manca da morire. Le streghe di Marisol, invece, si palesano attraverso l’assenza, l’apatia, la debolezza fisica, la febbre continua, la denutrizione e il generale ritardo nello sviluppo cognitivo. Eppure, contro le streghe, le protagoniste riescono a vincere insieme parecchie battaglie. Sparisce la paura nell’una e la febbre nell’altra, per lasciare spazio via via ad una pienezza dell’anima che la donna non aveva mai provato e che dà alla bambina la forza di muovere finalmente i primi passi.  Come da copione, quindi, i mostri si fanno più cattivi e sferrano colpi più duri. Nella donna subentra la paura di non fare abbastanza, di non riuscire ad essere abbastanza; la bambina si permette un lusso pericoloso per la situazione in cui si trova: si abitua alle coccole, all’affetto, ai legami.

Il colpo di scena? È la bambina a salvare la volontaria, non il contrario. L’amore da lei ricevuto diventa quel bicchiere mezzo pieno che da tempo stava cercando senza sapere dove trovarlo; un desiderio infinito di vita che la guarisce dal suo malessere come nessuna bacchetta magica avrebbe potuto fare. Il lieto fine? Purtroppo nelle non-favole quello non esiste: Marisol è stata affidata alla nonna, un’ estranea a cui nemmeno voleva avvicinarsi. Oggi forse cammina. Lo desiderava talmente tanto che sono certa abbia imparato a farlo anche senza le mie braccia a rassicurare il suo passo fragile e incerto ma, nonostante tutto, stracolmo di voglia di vivere.

Varanasi, il turbine, di Alessandro Santini

Varanasi è il turbine. Fulmine e tuono insieme, temporale di vita e di morte. C’è troppo di tutto.
Troppo rumore di clacson e motori, troppa acqua nel Gange straripato, troppe vacche in mezzo alla strada, troppi uomini e animali, troppi feretri nelle strade vicine ai ghat delle cremazioni.
I ghat sono postazioni lungo il fiume, ognuna con una funzione specifica. 365 ghat, da Varuna ghat ad Assi ghat, Varuna+Assi=Varanasi. Ci sono i ghat per le cerimonie di offerta agli dei (puja) e quelli per le preghiere, i ghat per le cremazioni e quelli per non so che cosa. In questi giorni i ghat non ci sono più, sommersi dal fiume esondato. Secondo gli hindu, chi muore in questa città e viene cremato sui ghat specifici, con le ceneri direttamente sparse nel Gange, interrompe il ciclo delle reincarnazioni. Da questa parte c’è la sponda dei vivi, dall’altra quella dei morti. Non c’è nulla sull’altra sponda del fiume. Guardarla dall’alto dei ristoranti on the roof top è inquietante.
Una barchetta ci porta fino al principale ghat delle cremazioni, il Manikarnika ghat. Il Gange è altissimo, è entrato nella città per 30-40 metri. La cerimonia è semplice, scandita da gesti precisi e rituali consolidati che non si fermano davanti a nulla. Ieri pomeriggio siamo rimasti a lungo sotto una pioggia battente a osservare i feretri decorati, portati a spalla dai dom intoccabili che recitano il mantra “Ram nama satya hey” (“il nome di dio è verità”), ipnotici e risoluti.
Più spaventosi dei morti sono sempre i vivi, in questo caso i cani. Sono straziati i cani in questa città ed è straziante vederli. Niente feretri, niente pire, niente povertà, niente sporcizia, niente puzze, niente mi ha turbato come i cani di Varanasi.

Sadu in Varanasi
Dopo la cremazione ci addentriamo nella città vecchia, assaggio il paan, una miscela di noce di betel, pasta di lime e altre spezie che non so, avvolte in una fogliolina verde. Si mette in bocca, si mastica e si sputa. Mastica e sputa, tutti masticano e sputano. Lo faccio anch’io. Splendidi schizzi rossi si stampano sulla strada lorda e contribuisco infinitesimamente, ma con immenso piacere, a sporcare la città più lurida che abbia mai visto. Mangiamo quello che pare essere il miglior lassi (un denso yogurt con pezzi di frutta fresca) di Varanasi. Il paan e il lassi mi riconciliano con la città.
C’è comunque troppa gente a Varanasi, c’è troppo di tutto. Ieri sera, nell’istante in cui mi fermo in mezzo a una piazzetta, un temporale monsonico è appena passato, mentre il temporale di clacson e rumori non passa mai. In breve ho almeno 7/8 autisti di tuk tuk o risciò attorno. Faccio presente la nostra destinazione e fanno loro i prezzi, passando in trenta secondi da 250 a 40 rupie (da 3€ a 45 cent), senza che io dica nulla. Ne scelgo uno a caso e montiamo, la pioggia ricomincia, poi cessa di colpo. Dopo essere arrivati sani e salvi in hotel, maturo questa profonda convinzione: puoi esserti lanciato col paracadute o aver fatto bunjee jumping, puoi aver finito un ironman di triathlon o partecipato a un bunga bunga ad Arcore, ma se non sei mai salito su un risciò a Varanasi e attraversato la città in una notte di monsone, allora in fatto di esperienze estreme non avrai vissuto proprio nulla.
Sono le 22 quando quando scendo in strada. Il monsone odierno è passato. Cerco la bancarella dei fritti in cui nel pomeriggio abbiamo mangiato ottime samosa (pastella fritta con dentro verdure tritate), ma non c’è più. Prendo da un’altra bancarella una specie di involtino preparato sul momento con due uova, cipolla, due fette di pane e sale. Il tipo mi chiede se voglio anche il “chili”. Annuisco ben sapendo quanto brucerà in bocca e quando gli chiedo come si chiama il piatto, penso a chissà quale nome complicato ed esotico, ma lui fa “Omelette”. La tentazione di mandarlo a quel paese è grande.
Mi fermo sul ciglio della strada a guardare la città su cui è scesa la notte. Scampanellii di risciò, clacson, i motori dei generatori, guati e latrati di cani che si azzuffano o si accoppiano o fanno le due cose contemporaneamente, il belare di un agnellino bianchissimo legato tutto il giorno su un marciapiede di fronte al nostro hotel. Domani ce ne andiamo da Varanasi e sento un misto di sollievo e già di nostalgia. Sento fra lo stomaco e la gola di avere un intrico di fili chiari e scuri. Chiari e scuri, proprio come l’India.

3 responses to “Incontri di viaggio: ecco i racconti vincitori

  1. Tante congratulazioni ai vincitori!Sono racconti davvero emozionanti e unici!E posti meravigliosi!!!

    1. 🙂 Doroty, anche il tuo ci era piaciuto molto!
      Organizzeremo sicuramente altre iniziative di questo tipo in futuro, quindi continua a seguirci!

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